La fondazione e lo sviluppo urbanistico
Dalla capitale spagnola, da cui Filippo II, sovrano di un impero pluricontinentale, aveva impartito, il 3 giugno 1573, i criteri cui attenersi per edificare nuove città nei territori americani della Conquista, provenivano chiare direttive per la costruzione di nuovi centri abitati. Era ritenuta indispensabile la presenza e la centralità di una grande piazza rettangolare o quadrata dalla quale si dipartano in maniera ortogonale, strade diritte e ampie che formino un reticolo regolare. Nel caso del comune feudale che stava nascendo, il barone pensò di partire dall’edificio preesistente, il fondaco, ma non mancò di prevedere una piazza contigua ed anche, in seguito, una più grande piazza centrale. Le vie, perpendicolari alla regia trazzera costeggiata dal fondaco e a monte di essa, furono allineate in direzione nord-sud e, consentendolo la conformazione del terreno, tutte abbastanza ampie, fatta eccezione per la prima, ad est del fondaco, ancor oggi popolarmente indicata come “la strada stretta” (tratto iniziale dell’attuale via Monachelli), che, in quanto tale, servì evidentemente da esempio da non ripetere per le successive strade. Marco Mancino pianificò la lottizzazione in modo che “habitaturi et citatini” costruissero blocchi di case a spina composti da più corpi, per consentire alla maggior parte delle costruzioni di usufruire di tre muri comuni ai fabbricati laterali e a quello retrostante.
Il potere baronale richiedeva inoltre una sede fisica la cui posizione facesse rilevare anche simbolicamente i rapporti di forza: il palazzo del feudatario fu costruito quindi con robuste mura a nord dell’abitato, in posizione altimetrica dominante rispetto a tutte le strade, su uno slargo pianeggiante ancor oggi chiamato chianu casteddu, piano del castello, corrispondente alle otto-novecentesche vie parallele Trentacosti, Saverino, Romano.
Il territorio non destinato alle edificazioni venne diviso come d’uso in tre parti: quella feudale, messa a coltura dai dipendenti del signore; quella data in enfiteusi ai coloni (ancor oggi tali terreni sono detti ‘nchiuse); la terza, comprendente le terre comuni adibite ad usi civici, dove tutti gli abitanti hanno diritto al legnatico, al pascolo, al deposito del letame (‘u cummuni).
La dinastia Mancino-Parisi.
Marco Mancino, l’acquirente del feudo, è indicato nell’atto di compravendita, senza altre specificazioni o qualifiche, come “di questa città”. Dal canto suo Francesco Nicotra all’inizio del XX secolo, raccogliendo la testimonianza del signorino Monachelli, lo definisce “ricco mercatante genovese, passato in Sicilia con l’idea di acquistarvi una piccola signoria e godervisi in pace gli ozi che gli permetteva la bene spesa attività della sua giovinezza” . Le due cose non paiono in contraddizione, e possono essere entrambi vere: basta disporle nel tempo e notare che Marco Mancino aveva nel 1588 finanziato la costruzione del convento di S. Francesco con attigua cappella che ospitava una attivissima comunità dei Cappuccini nel vicino comune di Ciminna ed acquistato nel 1593, come si è detto, il feudo di Tumminìa dagli indebitatissimi signori Bosco, conti di Vicari.
Il fondatore era però senza eredi naturali: fu sua volontà, espressa nel 1624, tre anni prima di morire, che il feudo venisse retto dopo la sua morte, con una rendita annua di 2.120 onze, da Troiano o Traiano Parisi, barone di Milocca (Milena) e dai suoi legittimi eredi, a patto che questi assumessero il nome di Marco Mancino . Nacque così la dinastia dei Mancino che durò fino al secolo XIX. Nel suo testamento , Marco Mancino I disponeva di essere seppellito presso la cappella dei Cappuccini di Palermo, la cui infermeria aveva fondato. Un’altra prova, questa dello stretto legame con l’ordine religioso francescano: i primi Riveli del paese parlano infatti di un Ospizio dei Reverendi Padri Cappuccini che fin dai primi decenni di vita della nuova terra furono presenti con la loro attività religiosa. Nello stesso atto il fondatore stabiliva un legato di maritaggio destinato ad una ragazza povera del paese: ogni anno, a spese dei signori Mancino, si sarebbe assegnata una dote di 12 once per il corredo da offrire ad una giovane orfana o comunque bisognosa e non in grado di affrontare le spese connesse al suo matrimonio. Tale legato durò effettivamente fino all’Ottocento, assegnato ai baroni Di Salvo prima e alla Congregazione di carità di Bolognetta poi .
Il dieci aprile 1627, scomparso il capostipite, Troiano Parisi ottiene l’investitura reale col nome di Marco Mancino II. Il processo di investitura su cui si pronuncia favorevolmente il re Filippo IV di Spagna, parla di possesso del centro abitato chiamato Bolognetta (“possessionem ditte terre nominate di Bolognetta”), utilizzando quindi la denominazione prevista nell’atto di vendita Beccadelli-Mancino: segno evidente che i due nomi del paese si usavano indifferentemente e che ancora il toponimo di uso corrente può essere ignorato, almeno nei documenti ufficiali.
Marco Mancino terzo muore anche lui senza figli legittimi (“sine filiis legitimis”) nel settembre 1664 a soli 33 anni, nella città di Palermo, ed è sepolto nella chiesa di S. Domenico. E’ molto probabile che sia morto all’improvviso: si spiega così la mancanza di ogni disposizione testamentaria. Diventa allora titolare del feudo Girolamo Parisi e Settimo, in qualità di fratello secondogenito (“uti frater secundo genitus”), col nome di Marco Mancino IV .
Fu così che si succedettero i feudatari della famiglia patrizia dei marchesi di Ogliastro, fino a Marco Mancino VII, che sposò Giovanna Landolina Deodato e Moncada, figlia del principe di Torrebruna (luglio 1776). Questi fece costruire nel 1780 una grande fontana-abbeveratorio nella piazza maggiore del paese (piazza Cannolicchio, poi più elegantemente battezzata piazza Fontana, quindi Giolitti e dal 1927 piazza dei Caduti in guerra) e nel 1785 restaurare la Chiesa Madre di Ogliastro . Nominato governatore a vita del Monte di pietà della capitale, ne promosse il nuovo regolamento nel 1779, ma fu arrestato nel 1784 in seguito alla scoperta di falsi nella gestione di alcuni prestiti. Il casato finì per estinguersi poi con Marco Mancino VIII, insediatosi nel fatidico anno 1812, privo di eredi maschi, che dilapidò le sue sostanze appoggiando i Borboni fino alla fine del loro regno.
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